La Storia dal 1967 ad Oggi
La gente si sorprende quando viene a sapere che sono un fotografo e ancora di più quando scopre che lo sono da quasi sessant’anni da molto prima, cioè, di diventare conduttore di programmi televisivi alcuni dei quali hanno avuto molto successo e sono rimasti nella memoria dei telespettatori e nella Storia della televisione italiana.
Sono nato a Milano nel 1948 e ho cominciato a fotografare a 11 anni con una Bencini Comet S (ombre, prospettive, famigliari e gli amichetti costretti a travestirsi e ad interpretare scenette per il mio obiettivo) tuttavia ero ben lontano dall’immaginare che la fotografia sarebbe diventata così importante per me.
Primo Periodo
1967 – 1969
A 18 anni ho cominciato a fotografare consapevolmente, bighellonando per una Milano nella quale erano ancora molto evidenti i danni causati dalla guerra, la povertà dei cortili delle case di ringhiera ma anche la febbrile volontà di ricostruzione che tuttavia non disturbava una tranquillità urbana che oggi sarebbe sorprendente.
La nebbia e il freddo erano quelli degli inverni milanesi di allora ed era proprio in quel clima che cercavo le mie immagini lungo il Naviglio fumante, nei parchi cittadini piastrellati di foglie d’autunno o all’Isola Garibaldi che è uno dei più vecchi quartieri popolari di Milano; camminavo con una Canon FX appesa al polso (tenerla al collo mi sarebbe sembrata un’ostentazione eccessiva) sognando che fosse una Nikon F che avrei potuto permettermi solo molto tempo dopo, anche se a casa avevo una Rolleiflex 3,5 F dono di mio Padre che incoraggiava la mia attività fotografica.
La nebbia, inoltre, favoriva l’estetica dei miei scatti in bianco e nero perché trasformava ogni cosa in toni di grigio e impediva allo sguardo di spingersi al di là di un certo orizzonte del quale nascondeva anche la linea.
Perché fossero proprio quei due elementi –la nebbia e il freddo- a stimolare la mia voglia di fotografare me lo sono spiegato diversi anni più tardi: nebbia e freddo invitano alla concentrazione, all’intimità con sé stessi e alla riflessione solitaria.
Quando ero saturo di freddo e intriso di umidità mi infilavo –ventenne osservato con diffidenza dagli avventori abituali- in una qualsiasi delle osterie di quei quartieri o nella mansarda che dividevo con altri sei soci –studenti come me- all’ultimo piano di una casa popolare di via Corsico: una strada che sbocca proprio sull’alzaia del Naviglio grande; accendevo una stufetta elettrica (il sottotetto non aveva riscaldamento) semprechè non ci avessero tagliato la corrente dopo una serie di bollette non pagate e mentre mi riscaldavo cambiavo la pellicola comprata a metraggio e caricata da me stesso nei caricatori 35mm di latta che usavo ripetutamente a questo scopo.
Poi ripartivo per un’altra battuta di caccia alle immagini di una Milano della quale sentivo la necessità di conservare il volto che conoscevo e che mi ricordava quello di mia nonna Ada che, quando ero piccolo (i miei genitori –gente di teatro- erano spesso in tournèe per diversi mesi), mi ospitava nella sua casa di ringhiera, con la stufa a legna sulla quale metteva a scaldare i ferri da stiro di metallo e una grande radio di legno lucido alla quale ascoltavo insieme a lei le commedie e i radiodrammi prima di andare a dormire in un letto riscaldato con un braciere ovale detto «il prete»: si metteva fra le lenzuola e si toglieva prima di infilarsi sotto le coperte.
Quelle fotografie le scattavo, come ho detto, per me stesso ma la necessità di dare alla mia attività uno sbocco economico che mi permettesse almeno di comprare in autonomia pellicole, acidi e carte si era presentata ben presto e altrettanto rapidamente avevo allestito in casa –oltre alla camera oscura in uno sgabuzzino- una sala di posa volante nella stanza di mio fratello Daniele che era più grande della mia; un rotolo di carta faceva da fondale e due lampade Philips Photoflood fornivano l’illuminazione necessaria a fotografare le mie compagne di scuola (ero l’unico maschio in una classe di 28 femmine), poi vendevo i ritratti alle loro mamme per 5.000 lire: una discreta sommetta per un ventenne dell’epoca.
Una curiosità: Sabina Ciuffini venne a farsi fare un ritratto quando ancora non era la celebre valletta di Mike Bongiorno e io non potevo certo immaginare che di lì a poco sarebbe diventata «la ragazza della porta accanto» più famosa d’Italia!
Alla ricerca di una ambientazione più varia e originale rispetto al monotono fondale del mio «studio» casalingo spesso realizzavo i miei ritratti anche a domicilio.
Nella bella bella stagione, invece, portavo i soggetti al parco di Monza perché il bosco e la natura mi fornivano sfondi più freschi. Guardando la foto della ragazza scalza inerpicata sul cofano della Mini Innocenti (le feci togliere le scarpe perché la Mini era mia!) qualcuno potrebbe ricordarsi una celebre foto di moda che Alfa Castaldi scattò a due modelle sul tetto di una Land-Rover dietro piazza della Signoria a Firenze.
Io quella foto non la conoscevo e la vidi solo molti anni dopo anche se, nel 1970, conobbi personalmente Alfa Castaldi al quale fui presentato da mia madre Ebe –costumista del Piccolo Teatro di Milano e poi alla Scala- che, per un certo periodo, divenne redattrice di moda a «Novità» lavorando così con i più celebri fotografi dell’epoca. Per lo stesso motivo conobbi Ugo Mulas che mi prese in simpatia permettendomi di andare a sviluppare qualcuno dei miei rulli nel suo laboratorio che era in via Spallanzani a Milano: l’operazione, eseguita in un laboratorio attrezzato professionalmente, risultava molto più pratica e veloce di quanto potevo fare io nella camera oscura di casa. Tuttavia, quello che mi affascinò letteralmente furono le sue fotografie di artisti nei loro studi, genere che cercai immediatamente di imitare.
Sulla prima pagina del libro, sotto le parole «A Pesca, frutto di mare, giammai d’Aprile…» scrisse con calligrafia minuta «…e a Davide con amicizia! Ugo Mulas – Dicembre 1970».
Me lo diede un giorno che andai a trovarlo nella sua bella casa di piazza Castello; ricordo che rimasi molto sorpreso di trovarlo in pantofole quando mi aprì la porta.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi: morì due anni dopo.
Secondo Periodo
1970 – 1985
Negli anni che seguirono, nella mia mente si fece strada l’idea di trasformare la passione per la fotografia in un lavoro, intenzione che però non mi ha mai convinto.
Non mi sono mai pentito di aver rinunciato alla carriera professionale: sentivo di non essere disposto ai sacrifici che la carriera di fotografo richiedeva e del resto la vita mi stava portando -senza farsene accorgere- da un’altra parte.
Oggi so che essere un fotografo libero di riprendere ciò che voglio, quando voglio e come voglio senza sottostare alle esigenze del mercato e di un committente mi ha permesso e mi permette tutt’ora di produrre fotografie per il puro piacere di farlo ma allora non avevo una visione così lucida della situazione per cui, mentre frequentavo la facoltà di Scienze politiche all’Università Statale di Milano, mi iscrissi comunque al corso di fotografia dell’Umanitaria dove le mie conoscenze tecniche di ripresa, sviluppo e stampa diventarono quantomeno più consapevoli e sicuramente meno dilettantesche.
Frequentava il mio stesso corso un signore meridionale maggiore di me di una decina d’anni (oggi lo definirei un giovanotto!) molto simpatico e disponibile a fare amicizia, disponibilità della quale non volli approfittare sia per la soggezione che mi incuteva una persona più grande e più sicura di me sia perché giudicavo molto opportuno diffidare di uno che diceva di lavorare già come fotografo ma che portava con sé una cartella e nella stessa mano che la reggeva, una reflex chiusa nella «borsa-pronto»!
Patetico errore di gioventù: quel giovanotto si chiamava Leonardo Cendamo e sarebbe diventato ben presto uno dei più grandi fotografi italiani, celebre soprattutto per i ritratti delle personalità del cinema, dell’arte e della letteratura mondiale.
In quel periodo scoprii le fotografie di Henri Cartier-Bresson e divenni un seguace della scuola neo-realista francese identificandomi soprattutto con la poetica fotografica di Robert Doisneau.
Cominciai a svolgere una intensa attività di reportage sociale fotografando con curiosità e partecipazione la piccola umanità cittadina e gli episodi minori della quotidianità; sceglievo i miei soggetti per la strada e nei bar, fotografavo la gente comune che lavorava e quella che si divertiva, le portinaie che spazzavano i cortili delle case popolari, gli innamorati che si baciavano e i ragazzi che giocavano incuranti della macchina fotografica che li riprendeva.
Nel 1969 -quando non avevo ancora compiuto vent’anni- il regista Virginio Puecher mi chiese di fotografare i modelli delle scenografie che aveva disegnato e costruito per lo spettacolo teatrale «La vita immaginaria dello spazzino Augusto G.» del drammaturgo francese Armand Gatti.
Le riprese erano talmente complesse che mi impegnavano insieme a lui e ai suoi assistenti per intere giornate al termine delle quali rientravo a casa e dopo cena impiegavo gran parte della notte a sviluppare i rulli nella mia camera oscura casalinga; verso mezzanotte, con regolarità, Puecher mi telefonava per essere rassicurato sulla riuscita dei trattamenti perché –diceva quasi scusandosi- «siamo nelle mani della chimica!».
Naturalmente lo rassicuravo dicendogli che tutto era riuscito a regola d’arte e che poteva coricarsi tranquillo… anche se, il più delle volte, le pellicole erano ancora nel bagno di sviluppo!
Di quel lavoro è rimasto un libro edito da Guanda -del quale conservo religiosamente una rara copia- intitolato appunto «La vita immaginaria dello spazzino Augusto G.»: è la prima pubblicazione sulla quale compaiono 12 fotografie più quella di copertina certificate con regolare citazione dell’autore Davide Mengacci.
Nel 1973 muore improvvisamente mio Padre Guido ed io comincio ad occuparmi seriamente della sua agenzia di pubblicità lavoro per il quale, del resto, avevo studiato due anni all’«Ecole des cadres» di Losanna.
In quegli anni, appena se ne presentava la necessità, commissionavo le fotografie per gli annunci dei miei clienti ai fotografi che più apprezzavo: ricordo in modo particolare l’amicizia nata proprio in una circostanza lavorativa con Cesare Colombo e che nel 1977 mi fece il regalo di realizzare il reportage del mio matrimonio e quella con Gianni Berengo Gardin che non ho mai smesso di frequentare.
Nel 1992 ho scritto «Viva gli sposi» un libro pubblicato da Mondadori nel quale racconto i fatti più interessanti e divertenti che mi sono successi durante la pluriennale conduzione di «Scene da un matrimonio»: una delle mie trasmissioni televisive di maggior successo.
Il libro è illustrato con 30 fotografie in bianco e nero scattate da Gianni Berengo Gardin che venne due settimane sul set del mio programma seguendo e fotografando il «backstage» -diremmo oggi- del prima, durante e dopo la cerimonia nuziale: fotografie nelle quali la mano del Maestro è talmente evidente che non sarebbe neanche stato necessario indicarne l’autore.
Come ho già detto, la mia scenografia preferita era la nebbia che a Milano non ho mai più visto come negli anni ’60. L’ultima volta che ho fotografato «quella nebbia» è stato nel 1984. La nebbia che talvolta vediamo oggi a Milano è ben diversa: più trasparente, più sporca ma soprattutto è rumorosa trasmette, cioè, i rumori che la nebbia di allora invece ovattava.
Il 16 Febbraio del 1984 firmai un contratto con l’agenzia fotografica «Olympia» e cominciai una regolare collaborazione con «Il Giorno», «La Repubblica» e «Il Giornale» fornendo per cinque anni ai tre quotidiani foto di cronaca soprattutto per le pagine milanesi…
…e realizzando anche alcuni reportage geografici per «Qui Touring» il mensile del Touring Club Italiano.
In quel periodo cominciai a sviluppare il gusto per l’ironia che ancora oggi caratterizza molte delle mie fotografie come questa di due senzatetto appoggiati l’uno all’altro sulla stessa panchina: uno dorme coperto da fogli di giornale…
…mentre l’altro legge su un quotidiano un articolo intitolato «Su con la vita!» esortazione che nella fattispecie suona piuttosto sarcastica.
Nel 1986 una serie di circostanze personali mi spinge a vendere la mia agenzia di pubblicità «Publilife» e comincio a lavorare in televisione per le reti Mediaset conducendo –negli anni successivi- programmi di grande successo: «Candid Camera Show», «Scene da un Matrimonio», «Perdonami», «La Domenica del Villaggio», «Fornelli d’Italia», «Ricette all’italiana», tanto per citare soltanto i principali e questo mi consente di viaggiare in tutta la penisola facendo conoscere ai telespettatori italiani centinaia di piccoli paesi poco noti ma ricchi di fascino e di storia nei quali porto l’occhio delle telecamere ma non quello della mia macchina fotografica.
Nei vent’anni successivi, infatti, dimentico la fotografia troppo coinvolto nel lavoro televisivo e pago delle soddisfazioni creative di questo nuovo lavoro.
La fotografia che segue –scattata a Camogli nel 1986- è stata l’ultima immagine che ho visto attraverso il mirino di una macchina fotografica prima di interrompere l’attività.
Terzo Periodo
2006 – 2012
Nel 2006 -complice una lunga pausa nel lavoro televisivo- riprendo a fotografare dapprima con le mie vecchie macchine a pellicola, poi acquistandone di nuove e infine lasciandomi sedurre dalla fotografia digitale.
I miei soggetti sono sempre gli stessi ma le mie fotografie cambiano notevolmente aspetto sia perché dopo vent’anni di nuove esperienze anche il mio modo di vedere le cose è cambiato, sia perché, nel frattempo, anche la gente della strada è cambiata: le persone non sono più disponibili a farsi fotografare come negli anni ’70, anzi guardano con diffidenza chi punta loro addosso una fotocamera.
Se poi sono extracomunitari -magari senza permesso di soggiorno- si negano proprio all’obiettivo reagendo con insofferenza e qualche volta con una discreta violenza.
Se a questa scarsa disponibilità si aggiungono gli ostacoli eretti dalla nuova legge sulla privacy le difficoltà per un fotografo di strada diventano quasi insormontabili.
Dopo un paio di episodi sgradevoli con soggetti reticenti, comincio a fotografare la gente più da lontano ma senza usare i teleobiettivi anzi, se prima le mie macchine fotografiche montavano di preferenza un medio teleobiettivo che mi permetteva di isolare il soggetto riprendendolo dall’altro lato della strada adesso prediligo un grand’angolare medio che mi permette di includere nell’inquadratura buona parte dell’ambiente che circonda il soggetto arricchendo l’immagine di valori, dettagli e informazioni.
Mi rimetto in cerca della vecchia Milano delle case di ringhiera che non esiste più ma con lei, per fortuna, non sono scomparsi i milanesi che sfoggiano ancora certi tratti che chi possiede gli strumenti culturali necessari è in grado di riconoscere con gioia e nostalgia.
In questa ricerca divento più attento all’estetica, affino gli aspetti ironici delle situazioni che fotografo e inserisco il più spesso possibile nelle mie foto soggetti in movimento.
Fra i miei soggetti preferiti i cani la fanno da padrone (concedetemi il bisticcio di parole) perché mi piacciono e perché sono estremamente fotogenici nel senso che molte delle loro espressioni e dei loro atteggiamenti sono facilmente paragonabili a quelli umani…
…e proprio con il titolo «Cani e umani» nella primavera del 2013 ho esposto una mostra nello storico Palazzo Castiglioni -prestigiosa sede di Milano della Confcommercio- e pubblicato un libro con lo stesso titolo del quale ho regalato una copia a Franco Fontana che come me ama i cani ed è l’umano di due bassotti.
Lui ha ricambiato con l’ultimo dei suoi libri «L’anima, un paesaggio interiore» scrivendo a grandi caratteri, sulla prima pagina del volume, una dedica che rivela il carattere dell’uomo che c’è dietro l’artista: un poeta spiritoso, ironico e dissacrante, emiliano fino alla radice dei capelli, costruito con quella stessa materia che le “rezdore” modenesi usano ancora oggi per fabbricare i bambini.
Con triplo riferimento al titolo del libro, al mondo dei cani e a quello dei fotografi la dedica recita: «Ciao Davide, continua a vivere con cuore e pensiero e l’anima ti condurrà dove desideri, in stazioni felici ci ritroveremo in compagnia di tanti “cani”.»
La parola “cani” è fra virgolette!
Riprendere il percorso fotografico, inoltre, risveglia il mio primo interesse: quello per il ritratto. Quasi senza accorgermene, infatti, quasi tenendolo nascosto persino a me stesso tra una foto di strada e l’altra ricomincio a fotografare le persone ritraendo chi mi è più vicino e chi conosco meglio: i miei colleghi dello spettacolo e i miei vecchi amici.
2013
Esperimenti
Nel corso del 2013 mi metto in cerca di nuovi argomenti.
Limitando momentaneamente il mio impegno nella fotografia di strada, inizio una serie di esperimenti: la moda, il reportage, e il glamour.
Inoltre mi accorgo che il mondo è a colori! Prendo lezioni di postproduzione fotografica e comincio cautamente a guardare il lato colorato della vita, dapprima con diffidenza poi sempre più convinto dai nuovi orizzonti espressivi che l’uso del colore permette.
Moda
Reportage
Glamour
Quarto Periodo
2014 – 2015
In questo periodo mi interessano soprattutto i ritratti. Ritratti scattati per strada alla gente che assume spontaneamente la posa che preferisce, come facevo negli anni ’60,
Deeva Kant
Questa serie di fotografie –ad esempio- descrive efficacemente la sensualità dei soggetti e la loro abilità nell’arte che praticano: il «Burlesque» e la «Pole-dance».
Dana Hesse
Buone Fotografie
La fotografia tradizionale, quella che -ad eccezione di qualche esperimento- ho sempre praticato- è prima di tutto documentazione.
Una buona fotografia, quindi, non deve necessariamente essere bella ma avere un contenuto e comunicarlo in modo comprensibile…
…dicendoci anche qualcosa del momento storico in cui è stata scattata.